Il Sogno di Ildebrando

Bisogna raccontare il passato per evitare gli stessi errori nel presente.

Per anni abbiamo avuto in casa le foto di mio nonno, Ildebrando Benedetti, e i pezzetti di carta da lui gelosamente conservati, del periodo che ha trascorso come prigioniero di guerra in Germania.

Con lo scoppio della guerra in Ucraina e del conflitto sulla striscia di Gaza, ho sentito il bisogno di raccontare la sua storia: la storia di milioni di esseri umani costretti ad indossare una divisa e colpire altri esseri umani sconosciuti ma così simili.

Mi sono ricordata del mio nonnino, intelligente, modesto, esperto di agricoltura e capace di coltivare ogni pianta, falegname, muratore, idraulico, piccolo allevatore di animali da cortile.

Contadino ed artigiano.

Costretto a lasciare la sua famiglia, Florinda, la moglie adorata e le tre figlie bambine.

La sua piccola bottega dove intrecciava i vimini.

Penso a mio nonno Ildebrando ogni volta che sento i ragazzi, nel 2024, esaltarsi per adunate che ricordano quelle fasciste del tempo di guerra che tanto hanno spaventato mio nonno e tanto sono costate in vite uccise, torturate, perseguitate.

E così, con l’aiuto di mia zia Vittoria ultima testimone della storia di nonno, ho iniziato a dividere per data le foto e i pezzi di carta, rivelatisi documenti di un viatico fuori dall’Italia fino all’estremo nord della Germania.

Ho immaginato tutti i treni e i carri su cui è salito, da cui è sceso, spintonato, stordito dalla luce, dalle grida in una lingua sconosciuta.

Giorni e giorni solo lontano da tutto ciò che lo confortava, vedendo morire gli altri prigionieri accanto a lui.

E alba dopo alba sono passati mesi. Lavorando, cercando di sopravvivere al freddo, alla fame, alle vessazioni.

Chissà che rumore fa un campo di lavoro quando viene abbandonato dai carcerieri e si spalancano porte e cancelli grazie ad altre truppe ma di liberatori?

Chissà cosa è passato in testa a mio nonno quando si è preparato a tornare a casa e ammucchiando le sue poche cose, ha notato un orologio a pendolo appeso al muro di un ufficio ormai vuoto.

Era il pegno e il riscatto del tempo che aveva trascorso lì?

Lui si è caricato dell’orologio trasportandolo per tutto il viaggio a piedi fino a casa.

Fino da Flora.

Cristina Bonatti

We need to talk about the past to avoid making the same mistakes in the present.

For years, we have had at home the photos of my grandfather, Ildebrando Benedetti, and the pieces of paper he jealously preserved from the period he spent as a prisoner of war in Germany.

With the outbreak of the war in Ukraine and the conflict in the Gaza Strip,  I felt the need to tell his story: the story of millions of human beings forced to wear a uniform and hit other unknown but very similar human beings.

I remembered my grandfather, intelligent, modest, expert in agriculture and capable of cultivating every plant, expert carpenter, bricklayer, plumber and small breeder of farmyard animals.

He was an expert farmer and craftsman.

Forced to leave his family: Florinda his beloved wife, and three little daughters.

His small shop where he wove wicker.

I think of my grandfather Ildebrando every time I hear the kids, in 2024, get excited about rallies that recall the fascist ones during wartime that scared my grandfather so much and cost so much in lives killed, tortured and persecuted.

So, with the help of my aunt Vittoria, the last witness to my grandfather’s story, I began to divide the photos and pieces of paper by date, which turned out to be documents of a viaticum outside Italy to the far north of Germany.

I imagined all the trains and carriages he got on, from which he got off, pushed, stunned by the light, by the shouts in an unknown language.

Days and days alone away from everything that comforted him, seeing the other prisoners die next to him.

And dawn after dawn, months passed. Working, trying to survive the cold, the hunger, the harassment.

Who knows what noise a work camp makes, when is abandoned by the prison guards and the doors and gates are thrown open thanks to other troops but of liberators?

Who knows what went through my grandfather’s mind when he prepared to go home and, while piling up his few things, he noticed a pendulum clock hanging on the wall of a now empty office.

Was it the token and redemption of the time he had spent there?

He loaded that pendulum and carried it all the way home on foot.

Up to Flora.

Cristina Bonatti